Coin Slider Gallery Fontanelle Molisane: La Fraterna di Isernia, la fontana dei misteri. Di Franco Valente

mercoledì 21 dicembre 2011

La Fraterna di Isernia, la fontana dei misteri. Di Franco Valente


Estratto e rivisto da: Franco Valente, Isernia, origine e crescita di una città, Campobasso 1982.


Introduzione
Ad Isernia viene chiamata “Fraterna” quella fontana che si trova accanto alla chiesetta della Concezione, al limite superiore della città romana, nei pressi della porta “da capo”, in ciò che rimane del popolare vicinato del “Codacchio”.



(Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons )



E’ sicuramente il monumento più intrigante e misterioso di Isernia per l’assoluta incertezza nella conoscenza delle sue origini, della sua storia e delle sue evoluzioni architettoniche nel tempo.
Alla carenza di informazioni, poi, si sono aggiunte fantasiose e folkloristiche interpretazioni epigrafiche che hanno finito per creare ulteriori dubbi e deviazioni
interpretative sulla storia di questa straordinaria fontana che, comunque, è una delle più belle dell’Italia minore.
Ho cercato di capire qualcosa di essa quando diedi alle stampe il mio volume sulla città
(Isernia, origini e crescita di una città, Campobasso 1982) e nella sostanza da allora ad oggi poco o nulla di più si è detto da altri illustri studiosi di cose locali.
Ci provò Angelo Viti in un suo saggio pubblicato dieci anni dopo sull’Almanacco del Molise 1992 (Angelo Viti, Documenti, interpretazioni e ricerche sulle lapidi della Fontana Fraterna di Isernia e le sue altre fontane) ma non aggiunse null’altro se non una puntuale dimostrazione, sulla scorta della originaria interpretazione di Teodoro Mommsen (CIL , IX, 2636) della inconsistenza, ammesso che ce ne fosse stato bisogno, della attribuzione fantasiosa di un frammento lapideo a qualche pronipote dell’italico Ponzio di Telese. Non conosco altri studi su di essa, salvo le utilissime raccolte fotografiche che hanno permesso perlomeno di verificare che la ricostruzione post-bellica del 1959 riproduce fedelmente il prospetto e la composizione che la fontana aveva prima della guerra (anche se diversamente posizionata) e principalmente le raccolte di Franco e Luciano Cristicini, fotografi, fedeli custodi delle immagini della Isernia di ieri e di oggi.
Sono dunque passati venti anni dal mio primo lavoro e i misteri rimangono tutti confermati.
Nessun nuovo contributo è venuto, per esempio, dall’aver potuto finalmente consultare e riprodurre, grazie alla gentile disponibilità dell’Archivio di Stato di Isernia e alla cortese collaborazione della dott.ssa Letizia Laurelli, l’importante rilievo catastale del 1875 che conferma l’esistenza di una particella catastale accanto al pronao della Cattedrale che, sebbene non coincida perfettamente con le dimensioni dell’attuale fontana (e da qui ulteriori dubbi), potrebbe essere un ulteriore indizio sull’originaria posizione del manufatto a lato dell’arco di S. Pietro, come già avevo sostenuto.
Ho l’impressione che la vera storia di questa insigne fontana resterà sigillata per sempre nella nebbia del passato, a meno che da qualche sconosciuto fascicolo di qualche improbabile archivio domestico possa uscire un indizio più concreto che permetta di dare una definitiva soluzione alle problematiche che rendono le notti insonni a quei pochi incalliti ricercatori di certezze.
Per questo motivo il lettore avrà la bontà di leggere o di rileggere quanto ho scritto sulla Fraterna di Isernia nella consapevolezza che la storia dell’arte e dell’architettura molto spesso si regge su ipotesi ed interpretazioni e che comunque costringono a prendere atto che nulla nasce per caso.
Mi piace ricordare al proposito una questione di cui meno vanto: l’aver scoperto prima che si facessero gli scavi archeologici che il tempio della Colonia Latina, che costituisce la base dell’attuale Cattedrale, in origine aveva l’ingresso dalla parte opposta. Avevo desunto ciò dall’intitolazione a Giobbe del vicolo sottostante ritenendo che quel termine fosse la deformazione di un’originaria via Jovis, ovvero via di Giove.
Angelo Viti nel pubblicare il suo volume sulle lapidi di Isernia (Res Publica Aeserninorum, Isernia 1982) parlò di “audace supposizione sull’inversione architettonica della fronte recentemente avanzata dall’architetto Valente”. Poi si scoprì che avevo ragione e Angelo Viti, da grande gentiluomo, qualche tempo dopo mi fece una lunga telefonata per complimentarsi della “felice intuizione”. Sull’impianto della basilica Desideriana contributi nuovi sono venuti solo dallo studio di Enza Zullo che ha rivisto in maniera definitiva le trasformazioni medioevali.
La questione sulle origini della Fontana della Fraterna, invece, appare più complicata ma non è del tutto impossibile tentare una risposta almeno per togliere definitivamente il dubbio sulla coincidenza dell’attuale prospetto con quello della fontana che era a lato della Cattedrale.
Sicuramente un piccolo saggio archeologico nell’angolo che si forma nell’attacco tra l’arco di S. Pietro e la facciata laterale della Chiesa potrebbe fugare definitivamente ogni dubbio.
Ma ne vale la pena? Forse no.
Dobbiamo tenerci la Fontana della Fraterna così come è oggi, immaginando che Celestino V l’abbia benedetta quando era in vita, che AE PONT sia un pezzo del mausoleo di Ponzio Pilato, che il moderno restauro sia una cosa fatta bene e che la certezza scientifica sia solo una scomoda avversaria della fantasia?
Ovviamente le cose non stanno proprio come ci piace immaginare, ma a volte gli uomini preferiscono una suggestiva verità ad una scomoda certezza. E vedremo perché.

La Fontana della Fraterna
Il termine “fontana” deriva dal latino “fons” ed indica la parte conclusiva di una vena naturale o di un condotto artificiale, e più precisamente il luogo ove l’uomo viene a contatto con l’acqua.
Questo rapporto, oggi del tutto scontato, in origine acquistava un valore di sacralità per l’importanza vitale che assumeva l’acqua quale elemento essenziale per la sopravvivenza dell’uomo e ne derivava di conseguenza una sacralizzazione della fonte stessa.
Tale sacralità determinava spesso particolari forme architettoniche o più semplicemente scultoree che anche dal punto di vista figurativo evidenziavano quei particolari significati religiosi che venivano attribuiti a quel luogo.
Già dal VII secolo a.C. vediamo le fontane far parte dell’agorà assumendo il carattere di bene a servizio della collettività.
Nel periodo romano le loro forme architettoniche oltre che esprimere i valori religiosi assolvono anche ad una funzione più propriamente urbanistica ponendosi spesso come elemento ornamentale della città oltre che delle ville private.
Ciò poté avvenire soprattutto grazie agli eccezionali impianti idrici con i quali i Romani
riuscivano a far confluire nelle città grandi quantità di acqua prelevata da sorgenti spesso notevolmente distanti dai nuclei abitati.
Anche la città di Isernia, come abbiamo visto, era dotata e servita da un acquedotto di notevoli dimensioni che garantiva una distribuzione a tutto il centro urbano dell’acqua prelevata alle falde della montagna tra Pesche e Miranda, dalle sorgenti dette oggi di S. Martino.
Nell’Alto Medioevo pressoché tutti gli acquedotti antichi erano scomparsi e di conseguenza anche le fontane pubbliche erano andate quasi del tutto in disuso, sostituite come furono da pozzi e cisterne.
Ciò fu conseguenza non solo di modifiche avvenute nella gestione della città che, sempre più condizionata dalle necessità di difese murarie, era costretta ad una autonomia che evitasse il ricorso ad acquedotti i quali potevano essere inquinati dai nemici, ma anche di variazioni altimetriche dei nuclei abitati che spesso furono spostati sulle sommità di colli che non presentavano scaturigini di acqua.
Isernia medioevale molto probabilmente fece eccezione per più motivi. In primo luogo per il fatto che l’insediamento medioevale si è sovrapposto a quello romano, ma forse anche perché l’antico acquedotto romano era quasi completamente interrato.
Ma se può essere messa in dubbio l’utilizzazione dell’acquedotto nell’altomedioevo, lo stesso non può dirsi dal XIII secolo in poi, quando doveva essere necessariamente funzionante per poter alimentare la Fontana della Fraterna.
Proprio in questo secolo tutta la penisola italiana è interessata da un sensibile rilancio
dell’architettura civile che, dalla caduta dell’Impero Romano, era stata subordinata a
quella religiosa, ed è allora che le fontane riprendono quella caratteristica di bene della
collettività ritornando a caratterizzare gli spazi urbani.
La loro gestione e la loro pulizia rappresentò un grande problema per la pubblica amministrazione che spesso dovette far ricorso ad apposite disposizioni perché ne fosse garantita l’igiene. Ne sono chiara testimonianza gli Statuti della città il cui testo ci è pervenuto per merito della famiglia D’Apollonio che ne ha conservato una copia settecentesca tratta da un originale del XV secolo. Il manoscritto, pubblicato per la prima volta da Antonio Mattei nella sua “Storia d’Isernia” (Vol. Il, pag. 253 e sgg.), riporta anche le norme igieniche per l’uso delle fontane cittadine e da esso vi riprendiamo il capitolo decimo:
“Di quelli che fanno lordizie alle fontane.
Item se alcuna persona facesse lordizie nelle fontane della Città o alli abevaraturi delle
bestie, pagaranno ogni volta grana cinque, e sia creduto ad un testimonio e facciasi
secondo si è detto di sopra’, e nessuna persona debbia gettare e far lordizie alle dette
fontane, una canna da lunci, sotto pena di grana due, e non lavare dentro delle dette
fontane niuna cosa lorda, e li Balii che saranno in quell’anno possano inquirere per
l’esame. Ancora se nelle dette fontane si trovassero castrati, pecore, agnelli, se li padroni ce li trovassero pagaranno la detta pena di grana due e la detta pena s’applichi alli quartucciari, che saranno in quell’anno. Ancora se in dette fontane ci entrassero altre sorti di animali, cioè oche, anatre, galline ogni volta che il padrone di detti animali ve li ponesse grano uno, e se vi entrassero da loro stessi, pagaranno un mezzo grano per volta per ciascuno animale, e se li quartucciari fossero negligenti ad eseguire la detta pena, la debbia eseguire il Governatore della Città.”
Il ricordo delle fontane monumentali romane è del tutto scomparso tanto che le forme più consuete sono da una parte quelle che riprendono la forma del pozzo o della cisterna e dall’altra quelle generalmente più semplici, con i cannelli a parete.
A queste ultime si collega la Fontana della Fraterna anche se la forma architettonica è non solo abbastanza complessa ma anche insolita.
Di questa fontana conosciamo molto poco e per capire sia il significato del nome, sia l’epoca di costruzione, bisogna affidarsi più alle ipotesi che a documenti epigrafici.
Il nome di Fontana della “Fraterna” le deriva dal fatto di essere situata nei pressi della sede della antichissima confraternita fondata da Pietro Angelerio (Celestino V) ed approvata il 1° ottobre 1289 dal Vescovo isernino Roberto.
Una copia del XVI secolo dell’atto di fondazione è conservata su carta pergamena, presso l’Archivio Capitolare d’Isernia (Fasc. V, n° 1) ed è stata pubblicata da Franco Ciampitti in “La Cattedrale di Isernia nella storia e nell’arte” (Napoli, 1968). Questa pergamena è stata oggetto di molte contestazioni essendosi dubitato dell’autenticità della trascrizione.
Della questione si è interessato diffusamente il Viti nelle sue “Note di diplomatica ecc.” (Napoli 1972) sostenendo la conformità della copia cinquecentesca.
Di tale documento, straordinariamente importante, riporto la traduzione in italiano, di Ciro Potena, rinviando alla pubblicazione del Ciampitti per il testo originale:
“Noi Roberto, per grazia di Dio, vescovo di Isernia, rendiamo noto a tutti i fedeli di Cristo, che leggeranno il presente atto, che rientra nel dovere e nella sollecitudine dell’autorità, invitare alle opere di misericordia quanti sono affidati alla sua giurisdizione, sostenere i volenterosi, ammaestrarli e confortarli nelle loro azioni, affinché la legge di Cristo, dagli stessi abbracciata, si sviluppi nei fedeli in modo che essi, esercitando il proprio dovere possano meritare in cielo copiosa ricompensa per tutte le benedizioni che avranno seminato in terra. Se infatti si ordina di sottostare all’imperio della legge, affinché ognuno viva onestamente, non offenda il proprio simile e riconosca a ciascuno il proprio diritto, ciò non porta a nessun merito, dal momento che l’uomo soltanto in forza della legge è impedito dall’offendere il proprio simile e ciascuno è tenuto ad osservare le suddette norme dalle quali si traggono vantaggi mentre in loro assenza nessun bene ne deriva, secondo le parole del profeta: “Evita il male e fa il bene”; la qualcosa, si realizza in modo perfetto per i Cristiani nell’esercizio della Carità. Se qualcuno, per bontà d’animo, viene in soccorso dei propri simili nelle necessità, elargisce elemosine, visita gli infermi, prega per i defunti col suo esempio spinge gli altri ad opere spirituali, è degno di lode e venerazione da parte di tutti; e le sue azioni debbono essere seguite dagli uomini se essi avranno agito lodevolmente, e che Dio, creatore di tutte le cose, li esaudisca e li difenda dai pericoli dei malvagi. Pertanto alcuni cittadini di Isernia, nonché altri forestieri, uniti dal vincolo della carità, per l’interessamento di fra Pietro da Morrone, cittadino di questa Città di Isernia, hanno costituita una Frataria o una Confraternita, affinché a tempo debito prestino la propria opera per preparare a sé ed ai poveri i convivi, impegnandosi a non offendere mai nessuno, a celebrare riti sacri, visitare gli infermi, aiutare i poveri nelle loro necessità e compiere altre opere buone; inoltre costruirono una sede in prossimità della Porta Maggiore della zona più alta della predetta città, per potersi riunire e per organizzare anche altre persone di buona volontà oltre a se stessi. Vi è stato innalzato un altare sul quale vengono celebrati riti sacri per i vivi e per i defunti ed è praticata generosa ospitalità verso tutti i poveri che vi accorrono. E per tenere saldi i fratelli in queste opere, decisero di apprestare alcune norme, firmate con giuramento e chiesero che fossero confermate da noi, affinché i fratelli, indotti dal timore della speciale ratifica, conoscessero la pena da subire per la loro circostanza, nel caso volessero, cedendo alla tentazione dello spirito maligno, trarsi indietro e nello stesso tempo avessero la certezza che le loro punizioni erano in accordo con la sanzione canonica.
Abbiamo ritenuto pertanto rendere pubblica la predetta Confraternita che si fonda su tali opere di misericordia, accolta sotto la nostra particolare protezione, con i capitoli di
seguito riportati e le indulgenze concessele, approvata da noi e dai Pontefici, in virtù della presente ratifica. E se uno dei fratelli, venuto meno a qualcuna delle norme, ammonito per tre volte, non si emenda, venga estromesso dalla Confraternita e il suo nome sia cancellato dall’elenco degli altri fratelli, né vi sia mai reintegrato.
Questi i capitoli
1 – Ogni fratello osserverà la fede e la verità verso l’altro confratello né lo accuserà o illecitamente lo danneggerà o gli arrecherà disonore; e se verrà a conoscenza che qualcuno stia agendo ingiustamente o ne abbia l’intenzione, per quanto può cerchi di impedirlo e lo richiami con grande sollecitudine.
2 – Se qualche fratello si ammala, lo visiterà, se versa in ristrettezze lo aiuti e se morrà contribuirà con gli altri fratelli alle esequie e faranno celebrare nel trigesimo della morte una messa cantata da un sacerdote della confraternita per la sua anima.
3 – Se qualche fratello giungerà a tanta povertà da non avere il necessario per vivere, tutti i fratelli spontaneamente e caritatevolmente lo aiuteranno.
4 – Parimenti ogni fratello, per la remissione dei peccati, ogni anno, nella prima domenica dopo la festa del beato Francesco, andrà nella predetta sede, per celebrare il convivio della Confraternita e distribuire le elemosine ai poveri; e per il banchetto e le elemosine ogni fratello darà cinque grani d’oro a quei fratelli che a ciò saranno delegati.
5 – Se qualche fratello della suddetta Confraternita morrà, lascerà alla stessa, in suffragio della sua anima, un terreno dei suoi poderi o di più, se possibile, secondo la sua volontà.
6 – Celebrato il convivio, nella notte seguente, ciascun fratello di detta Confraternita si recherà nella sede comune per commemorare i fratelli defunti e per fare celebrare messe dai sacerdoti della stessa Confraternita per le anime dei loro fratelli e di tutti i fedeli defunti.
A testimonianza di tale avvenimento e per ricordo per il tempo futuro, abbiamo redatto il presente atto, convalidato dall’apposizione del nostro sigillo personale. Fatto in Isernia il primo ottobre dell’anno del Signore 1289, nel secondo anno della terza indizione del Pontificato del papa Nicolò IV”.
Dal testo abbiamo conferma che la sede della Confraternita era posta a capo della città, nei pressi della porta principale: “prope portam maiorem superioris partis civitatis predicte domum costruxerunt”.
Il testo non ci è utile per sapere se in quell’epoca una fontana fosse ivi esistente o fosse ancora da costruire. Probabilmente, comunque, se fosse stata costruita insieme alla casa della confraternita se ne sarebbe fatto cenno.
L’atto di fondazione della Confraternita parlando dell’esistenza di una porta maggiore ci dà la sicurezza che nel XIII secolo non solo Isernia era difesa da una cinta muraria, ma che le porte erano più di una e soprattutto che la città si sviluppava nella parte superiore fino alla Chiesa della Concezione, partendo dalla parte bassa situata nei pressi del Convento di S. Pietro Celestino.
Ciò ci garantisce che nel XIII secolo l’area della Concezione era già compresa nella cinta muraria e che pertanto era possibile che nel suo interno fosse situata una fontana pubblica.
Ma ancor più va considerato che la fontana attuale non reca alcuna epigrafe che faccia
riferimento alla Fraternita, per cui appare logico che la sua costruzione non possa attribuirsi né a sua volontà, né a suo finanziamento, ma che il suo nome derivi solo dalla vicinanza fisica alla sede della Confraternita. Del resto, come vedremo più avanti, fino al XIX secolo essa era situata in altro luogo della città.


Una planimetria in scala 1:2000 eseguita nel novembre del 1887 dall’ing. Udalrigo Masoni di Napoli è particolarmente utile per conoscere la situazione ed il tracciato dell’acquedotto di Isernia dalla sorgente fino all’ultima fontana pubblica.
Il condotto, dopo aver costeggiato la via Garibaldi raggiunge il serbatoio principale, oggi più conosciuto con il nome di “pozzo”. Da questo ultimo punto l’acquedotto entra nella città antica alimentando case private e fontane pubbliche.
La fontana riportata con il n° 2 viene situata in prossimità della chiesa della Concezione, dove la strada subisce una accentuata piegatura. A questo numero corrisponde la “Fontana della Fraterna”.
Il Turco nella sua storia di Isernia riporta, a proposito della topografia e delle condizioni edilizie della città, uno stralcio della relazione che il tavolario don CasimiroVetromile aveva fatto per la valutazione dei beni demaniali in occasione di una causa tra gli amministratori locali e il R. Fisco, conclusasi nel 1744.
Tra le altre cose vengono elencate le fontane:
“A fronte della quale strada (corso Marcelli) da dentro detta Città vi sono sette pubbliche fontane di ottime e fresche acque perenni si d’Inverno come d’Està. La prima di tre cannuoli vicino la Porta superiore detta da capo; la seconda di cinque cannuoli, attaccata all’attrio di detta Cattedrale; la terza di un solo cannuolo avanti la chiesa della SS. Annunziata; la quarta simile chiamata la fontana di S. Tomaso, attaccata all’angolo del Palazzo della Camera Principale. La quinta simile davanti la chiesa del Purgatorio, la sesta di due cannuoli attaccata al Monistero detto di S. Maria e la settima che è di un solo cannuolo avanti il Monistero de’ reverendi Padri Celestini; e da fuori le muraglia di essa Città, poco discosto dalle medesime, vi sono altre due scaturagini di acqua perenne d’Inverno e d’Està, una dalla parte di oriente e l’altra da occidente, che sono chiamate le fonticelle”.
La descrizione è piuttosto sommaria, ma appare strano che non vi sia alcun riferimento ad una fontana con sei o sette cannelli, quanti sono o erano quelli della Fraterna.
Nel punto n° 2 della planimetria del Masoni, e cioè “vicino la Porta superiore”, viene posta dal Vetromile una fontana di tre cannuoli.
Appare evidente che non può trattarsi di quella che vi è oggi.
Inoltre il Vetromile dice che un’altra fontana cioè “la seconda di cinque cannuoli”, era “attaccata all’attrio di detta Cattedrale”.
Il Masoni da parte sua, un secolo e mezzo dopo il Vetromile, non riporta alcuna fontana nei pressi della facciata della Cattedrale. Vediamo infatti che la fonte più vicina, segnata con il n° 8, è posta sull’estremo occidentale della piazza del Mercato.
Dobbiamo inoltre considerare che nel 1805 Isernia aveva subito un forte terremoto in conseguenza del quale gran parte degli edifici furono completamente ristrutturati. La Cattedrale fu modificata in maniera sostanziale con l’aggiunta del pronao neoclassico che ancora oggi presenta.
I lavori cominciarono nel 1807 e furono terminati nel 1836, con la conseguenza che in questo lasso di tempo l’orginario “attrio” fu trasformato e la fontana dovette essere smontata.
E anche se il Vetromile la descrive come avente “cinque mascheroni che buttano acqua dalle loro bocche” è da ritenere che sia essa quella trasportata poi alla Concezione. Una verifica possiamo farla su una planimetria catastale ottocentesca (per la quale non è stato possibile ottenere dal Ministero l’autorizzazione alla riproduzione, quasi si tratti di un segreto militare) dove ancora è riportata accanto all’arco di S. Pietro l’area su cui poteva poggiare il monumento e le cui misure corrispondono abbastanza bene a quelle della Fontana Fraterna.
Ne abbiamo conferma da “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, pubblicato nel 1858, dove, alla voce “Isernia”, vengono descritte le Fontane della città: “È meraviglioso il vedere come Isernia, situata sopra una collina, sia stata dai suoi primi abitatori provveduta di acque in abbondanza, recandovele mediante un acquidotto perforato nel vivo sasso per la lunghezza di circa un miglio al nord della Città. Questo acquidotto è tagliato nella collina stessa tra duri sassi, alla profondità, in alcuni luoghi, di palmi 95, ed ha di altezza palmi Otto, di lunghezza palmi 4. Vi sono sei spiragli onde rendere agevole il ripulirlo e il restaurano in ogni caso. Questo antico acquidotto parte da ponte S. Leonardo, e va fino al così detto Pozzo.
In quel punto se ne devia un ramo che corre all’interno della città, ed anima sette fontane pubbliche e circa 45 private: l’altro ramo, nel quale scorre maggior volume di acque, serve ad animare varie macchine idrauliche, come diremo in prosieguo. Avrebbe bisogno però quest’opera, tanto proficua alla città, di essere protetta dalle piene estranee che talvolta intorbidano l’acqua rendendola melmosa; il che fa avere in poco pregio quella delle pubbliche fontane, che van distinte coi nomi della Concezione, dell’Annunciata; di S. Francesco; del Purgatorio; di S. Maria; di S. Pier Celestino e del Mercato. Alla prima, quella della Concezione, si diede altra forma nel 1835, adattandovi l’antica prospettiva che avea l’ultima, cioè quella del Mercato, e questa si è rifatta con nuovo disegno nel 1847.
A varie distinte famiglie, con Diploma di Giovanna III, in data dei 14 Settembre 1514 fu fatta concessione di una piccola porzione di quell’acqua per particolare commodo delle loro case magnatizie; e nel decorso secolo anche il Comune fece qualche simile concessione, mediante pagamento. Nel 1816 poi surse l’idea di un’equa ripartizione fra i cittadini del volume totale di acqua; ma questo non fu che un progetto rimasto ineseguito per molte e varie ragioni”.

Questo serve a chiarire definitivamente che l’attuale prospetto della Fraterna era prima sistemato al Mercato, ma dove precisamente fosse, probabilmente, non lo sapremo mai. Certamente però quando essa fu smontata e spostata vi dovette essere un motivo che noi possiamo ritenere di carattere urbanistico-architettonico.
La pretesa neoclassica di ristrutturare la facciata della Cattedrale con la necessaria conseguenza di una riqualificazione ottocentesca dell’area del Mercato, nonché la probabile eliminazione di edifici diroccati o fortemente lesionati dal terremoto del 1805, dovette suggerire lo spostamento di una fontana che evidentemente non si confaceva alla nuova dimensione spaziale della Piazza.
Rimane del tutto sconosciuto il motivo per cui nell’elenco del Vetromile una Fontana con sei cannuoli non sia menzionata, anche se comunque bisogna tener presente che il tabulario dichiara di descrivere le Fontane che si affacciavano su Corso Marcelli.
Di una fontana al Mercato abbiamo notizia sicura dagli statuti della città che contengono una specifica disposizione solo per essa; infatti al capitolo 57 leggiamo:
“Della fonte del Mercato.
Item volemo che non sia huomo o donna che ardisca spandere pelle sopra la fonte del mercato, né buttarvi lordizia seu immondizia alcuna sotto pena di grana dieci per ciascuna volta, quale s’esegua per li Balii.”
Nel 1835 era ancora vescovo di Isernia Adeodato Gomez Cardosa cui si deve la prosecuzione dei lavori alla Cattedrale, avviati dal predecessore De Peruta.
Al Cardosa dunque deve attribuirsi il “salvataggio”, se cosi lo possiamo chiamare, della fontana, che ricostruita in altro luogo conservò (?) la sua forma originaria.
Della nuova fontana posta al Mercato nel 1847 abbiamo una sola testimonianza in una stampa della seconda metà dell’800 nella quale la vediamo illustrata di fronte alla Cattedrale, al centro della piazza, e formata da un alto basamento, a tre gradoni, sul quale si notano quattro leoni in pietra posti simmetricamente ed accovacciati a difesa di una vasca circolare a calice, anch’essa di pietra.
Del monumento, rimasto in piedi per quasi un secolo, rimane oggi solo qualche frammento. Due leoni sono finiti a fare la guardia alla villa comunale. Altri due sono sistemati ai lati della scala della Biblioteca comunale.
Il problema a questo punto si trasforma quasi in un mistero insolubile, specialmente se si dà credito a documenti di indubbio valore storico ma che alla fine aggiungono dubbi alle incertezze.
La famiglia D’Apollonio conserva nel proprio archivio una gran quantità di appunti di
Ermanno, che fu Direttore onorario della Biblioteca comunale. Tra essi alcuni destinati ad una pubblicazione che non vide mai la luce sono stati raccolti ed ordinati dal figlio
Vincenzo per essere dati alle stampe.
A proposito della Fontana Fraterna tra l’altro si dice: “Prima del 1835 parecchi cittadini avevano offerto somme perché fosse rianimata la Fontana Fraterna. Il Decurionato, nell’agosto del 1835, decise che fosse stanziata per tale opera la spesa di ducati 30, a condizione che la fontana fosse prolungata per maggior comodo pubblico.
Con perizia del 30 settembre 1835 si propose di alzare la facciata interna da palmi sette a palmi otto e di prolungarla da palmi nove a palmi quattordici, onde avere la lunghezza sufficiente per istallarvi sei butta acqua per una spesa totale di riedificazione e completamento di ducati 77,26. Tale perizia fu approvata dalla Sottointendenza di Isernia il 5 novembre 1835”.
Considerando dunque la notizia dello Iadopi dello spostamento avvenuto nel 1835 e la
delibera del Decurionato del medesimo anno, si potrebbe supporre che la fontana portata alla Concezione sia stata quella che prima era posta presso l’atrio della Cattedrale e che una volta spostata si sia considerata l’eventualità di un suo ampliamento.
Ma i conti non tornano.
Negli appunti di D’Apollonio sono riportate le misure che avrebbe avuto la fontana Fraterna prima dell’ampliamento e quelle che avrebbe dovuto avere dopo, in larghezza ed in altezza.
Si dice infatti che la facciata interna doveva essere aumentata di un palmo allungandola da palmi sette a palmi otto. La sua larghezza sarebbe dovuta passare da palmi nove a palmi quattordici. Ora se pensiamo che il palmo lineare napoletano corrisponde a metri 0,26455 si sarebbe dovuto avere oggi una fontana con una facciata interna alta metri 2,1164 e larga metri 3,7037 contro gli originari metri, 1,8518 e metri 2,3810.
Dal rilievo attuale risulta che le misure interne sono di metri 3,40 in altezza e metri 6,40 in larghezza e di conseguenza appare chiaro che esse non hanno nessun collegamento con la fontana cui si riferisce Ermanno D’Apollonio.
Ma una delibera precedente, del 1832, del Decurionato sembra confermare che la Fontana della Cattedrale sia stata smontata perché cadente ed utilizzata nella composizione di quella che fu rifatta nel largo del mercato nel 1847. Infatti si legge:
“L’anno 1832, il giorno 18 luglio riunito il Decurionato per urgenza ed invito del signor Sindaco, il medesimo ha fatta la seguente proposta: Signori, la pubblica antica fontana del Mercato, situata in contatto della strada interna, in modo che rende difficile e pericolose le voltate dei legni di vetture, e di carico, rosa dal tempo è mezza rovinata, e formando una deturpazione, quindi a poco priverà il pubblico dell’uso, e commodo delle acque.
Si aggiunga a questo male il fatto inconveniente, che può risultarne nella faustissima venuta di Sua Maestà (Dio guardi) in questa città.
Poiché volendo albergare nell’episcopio o visitare la risorgente Cattedrale o percorrere l’interno dell’abitato le reali carrozze non potrebbero agevolmente girare e forse lo scuotimento nascente dai legni stessi attirerebbe la totale rovina dell’edificio con tristissimi disastri.
Conviene dunque far sparire quell’antica costruzione, e ripristinare il fonte in luogo migliore.
Il Decurionato convinto che una tale proposta merita tutta la considerazione sotto tutti i rapporti, e specialmente per la necessità di rendere spedito in quel punto dell’abitato il gioco delle carrozze e vetture ed ovviare ad ogni sinistro evento di rovina, con provvedere al tempo stesso ad assicurare il corso dell’acqua al pubblico ha ricordato che altra e sin dal 1827 fu presa in veduta il medesimo oggetto.
Allora fu formata regolare perizia per togliere l’antica fontana, e costruirne una nuova nel largo mercato. La spesa, dietro revisione dell’Ingegnere Provinciale Signor Coppola, fu ridotta ed approvata per ducati 1047.32 come da officio del signor Intendente diretto al signor Viceintendente a 26 giugno 1827 1° Ufficio n. 3063. Rimaneva a farsi il progetto di appalto.
L’imponenza della cosa, e la brevità del tempo in cui questo male si deve riparare non permette di progredire nel progetto di appalto. Si può però farlo cessare celermente,
riducendo la cosa ad una esecuzione amministrativa, economizzando anche quella spesa già approvata, facendo uso, in parte, del materiale di una fontana che esiste nell’ex monastero dei Conventuali, oggi di proprietà del Comune, la quale è pur essa deperita, ed i materiali sono esposti a poter essere dispersi, né presta alcun servizio, che l’abbevero ai cavalli della Gendarmeria, ivi stanziata, al che si provvederebbe nel contempo con comodi abbeveratoi.
Con questo materiale, e con altri finimenti si potrebbe far sorgere un nuovo fonte verso l’estremità del mercato ed accosto ad esso il castelletto per la massa e getto delle acque.
Sulla esecuzione di tale idea si è raccolto l’avviso del maestro fontanaro Raffaele Prisco, e dei maestri muratori Belisario Passarelli, e Felice Campo, i quali messo a calcolo la demolizione interna dell’antico fonte, la costruzione della nuova e del castelletto, la rimozione di quella di San Francesco, con la formazione degli abbeveratoi, hanno calcolato la spesa in ducati 700 salvo il più o meno a risulta”.
Dunque la fontana al Mercato e non quella alla Concezione doveva essere rifatta con i pezzi sistemati a lato della Cattedrale e quelli di una vasca in pietra sistemata presso il convento di San Francesco.
Quindi la fontana alla Concezione che si intendeva ampliare nel 1835 forse era ancora quella a tre cannuoli descritta nel XVIII secolo dal Vetromile e che invece fu interamente sostituita da quella che vi si vede oggi e che era in altro luogo del mercato.
L’unica spiegazione plausibile è che potrebbe trattarsi di quella cui fa cenno il Ciarlanti nella sua inedita Storia di Isernia quando parlando della Cattedrale e del Palazzo Vescovile afferma: “Da una parte le sta il Palagio Vescovile molto grande e pieno di tutte le comodità necessarie con bel giardino e fontana”.
Ammesso che si tratti di questa appare legittimo il dubbio se l’anastilosi sia stata eseguita in maniera perfetta oppure sia stata apportata qualche modifica al prospetto originale.
Sembra però difficile che alla composizione generale si sia potuto apportare qualsiasi trasformazione senza compromettere tutta 1’opera. Infatti tutti i pezzi sono così reciprocamente collegati che appare impossibile un montaggio in forma diversa.
Al massimo si potrebbe invertire qualche capitello, qualche mensola o qualche archetto, senza però cambiare minimamente il suo disegno architettonico.
Per questo, sebbene la fontana sia stata di nuovo smontata dopo il bombardamento dell’ultima guerra, essa si presenta nella forma architettonica originaria.
Indicativo può essere il fatto che sul monumento non vi è riportata alcuna epigrafe a
ricordo della trasposizione dalla Cattedrale al luogo attuale, mentre è conservata l’antica epigrafe medioevale dalla quale ricaviamo che furono i Rampini a voler questa opera.
La lapide, di complessa interpretazione per certi aspetti ed utilissima per altre considerazioni, è sistemata sul lato di destra, in alto, al di sopra dell’arco.
La pietra porta la frase FONS ISTE / CVIVS POSIT / RAMPINIANI / ME PARABIS.
Sulla sua destra vi è a rilievo lo stemma della famiglia Rampini formato da uno scudo
semplice con al centro una croce uncinata.

Il testo appare rovinato in due punti e cioè sulla parola “posit” e sull’ultima riga “me parabis”.
Per quanto riguarda il “posit” non dovrebbe esservi dubbio. Si tratterebbe della forma abbreviata della parola “positores” con il sottinteso “fuerunt”.
Per l’ultima riga restano molte perplessità sulla esattezza ditale lettura. L’incertezza
appare forte sul “parabis” che indicherebbe un futuro in seconda persona singolare, poco chiaro nel contesto generale a meno che non si tratti di un’altra parola tronca.
Comunque la prima parte potrebbe essere letta: FONS ISTE, CVIVS POSIT(ores) (fuerunt) RAMPINIANI… e cioe: “Questa fontana, di cui furono costruttori i Rampiniani…”.
Se difficile può essere l’interpretazione completa dell’epigrafe, chiaro è invece il riferimento alla famiglia Rampino di cui poche notizie possiamo ricavare dal Ciarlanti
(Memorie Istoriche del Sannio – Isernia 1644), dal Masciotta (Il Molise dalle origini ai
nostri giorni, Cava dei Tirreni, 1952) e dal Viti (Note di Diplomatica ecc., Napoli 1972).
Il Ciarlanti cosi riferisce a proposito del dominio di Federico II e della situazione del Sannio nel 1211:
“Erano stati occupati in tante rivolte diversi beni della Real Corte, e volendo l’Imperador ridursi sotto il suo imperial demanio, elesse perciò il giustiziere Teodino di Peschio Lanciano e gli assignò due giudici ambedue di Isernia, l’uno chiamato Carado, e l’altro Rampino, da cui è discesa la nobile famiglia de Rampini. Eseguirono costoro il loro ufficio, e specialmente in essa città la qual era sotto l’Imperadore, e non ad altri soggetta, e ancorché fosse, come è anche al presente, la più grande del contado, come si vede per una scrittura fatta nel mese di Decembre 1221, che si conserva nell’Archivio di Canonici di quella”.
Ma più interessante può ritenersi la citazione successiva, sempre del Ciarlanti, a proposito di Benedetto d’Isernia:
“Fu questo Benedetto Dottore molto famoso, e di tanta dottrina, e valore, che l’Imperadore l’adoprò in non pochi importanti negotij, e lo sublimò all’ufficio di Gan Cancelliero del Regno, per lo quale li assignò il feudo comunemente detto della Cancelleria, posto nelle pertinenze di Castello a mare, di Stabia, di Lettete, di Gragnano, di Nocera, d’Angri, e di Scafati, con le cui entrate hauesse egli a mantenersi, e tutti gli altri minori Ufficiali della Cancelleria; come si vede in una scrittura del Monastero di S. Giacomo de Capri de Certosini, c’hora detto feudo possiede. E perciò fa di lui honorata mentione il Capaccio nell’Histor. Napolit. e nella patria sono più sue memorie, a scritture. Hebbe per moglie Maria figlia di Rampino Giudice Imperiale nominato sopra, e per essere stato imposto ai suoi descendenti anch’il nome di Rampino, si convertì poi questo in cognome di famiglia, la qual visse in Isernia con molta nobilità uffici lungamente, come appresso si vedrà.”
Possiamo pure aggiungere che Benedetto d’Isernia fu tra i professori più autorevoli, già prima del 1231, della Università degli studi di Napoli, fondata nel 1224 da Federico Il per l’insegnamento del diritto civile, diritto economico, teologia, filosofia, grammatica e delle “artes dictarninis” (vedi: Nicola Cilento – “La cultura e gli inizi dello studio” in “Storia di Napoli”, vol. II pag. 616, ESI, Napoli 1969).
Mi limito ad appuntare l’attenzione su questi due personaggi anche se altri discendenti di questa famiglia hanno fatto parlare di sé nel secolo XIV.
Ricorderò brevemente che un Rampino famoso fu Corrado che nel 1330 venne eletto dal Capitolo Isernino Vescovo di Isernia.
Inoltre il Masciotta ci riferisce che Andrea Rampini fu nel 1350 Maestro Razionale della gran Corte della Vicaria e Capitano di Gaeta, e che insieme a suo fratello Niccolò, giudice Regio e Consigliere di Giacomo I, era feudatario di Sesto Campano.
Sia il Giudice Rampino, sia il marito di sua figlia Maria, il giureconsulto Benedetto di Isernia, godettero della fiducia di Federico II tanto che ad ambedue furono assegnati incarichi delicati ottenendo in cambio non pochi favori.
Non è da escludere che proprio ad uno di questi due possa essere attribuita la committenza della fontana, e più probabilmente a Benedetto.
Infatti, ciò che meraviglia nella quasi incomprensibile epigrafe è che non venga riportato il nome Rampino, ma l’aggettivo Rampiniano.
Potrebbe questa particolarità essere messa in rapporto a quanto riferito dal Ciarlanti e che cioè Benedetto d’Isernia con i suoi discendenti si definì Rampiniano e non Rampino, essendo la moglie Maria e non lui discendente di tale famiglia.
Mi pare questa l’unica e labile possibilità di datazione della fontana attraverso le testimonianze epigrafiche, ma qualche contributo più consistente ci può venire dalla lettura dei caratteri stilistici sia della intera fontana, sia della citata epigrafe rampiniana.
Il monumento è situato oggi ai limiti di uno slargo determinatosi nel 1943 a seguito del bombardamento subito dalla città.
Le bombe non risparmiarono la fontana che fu totalmente scomposta. Durante il periodo della ricostruzione e più precisamente nel 1959 essa fu fedelmente ricostruita con l’anastilosi curata dall’architetto isernino Giuseppe Tarra.
Ma se perfetta può essere definita la ricostruzione, lo stesso non può dirsi della sua collocazione nel contesto urbanistico.
Nessun rapporto esiste più tra il monumento e lo spazio urbano e il tutto è stato ricondotto alla brutale consumazione dell’architettura e dei suoi significati.
Una collocazione che se poteva trovare una giustificazione nel primo dopoguerra a causa dei grossi problemi, forse più immediati, derivati dalla mancanza di case, oggi invece non può più essere sopportata da chiunque abbia un minimo di sensibilità ed abbia a cuore la conservazione della documentazione storico-urbanistica della città.
Sulla Fontana Fraterna pochissimo si è scritto e dei suoi caratteri troviamo una rapida notazione di Ada Trombetta in “Arte Medioevale nel Molise” (Campobasso, 1971) ed un’altra di Francesco Casale che in “Almanacco del Molise 1975” (Campobasso 1974) così la descrive:
“Il prospetto principale della fontana si sviluppa su tre fasce ben distinte.
La fascia più bassa è realizzata in lastroni di pietra di notevoli dimensioni. La pietra centrale ne costituisce l’unico elemento decorativo per la presenza di un disegno a rilievo: in una cornice liscia sono inseriti due delfini disposti simmetricamente ai lati di un motivo floreale acquatico limitato da un disegno triangolare.
La fascia centrale si apre con sei archetti a tutto sesto poggianti su colonne e pilastri tutti diversi fra loro. La colonna centrale è costituita da due semicolonne abbinate di cui quella a sinistra presenta il fusto liscio e semicircolare, quella di destra il fusto liscio ma sfaccettato.

Questo elemento divide simmetricamente la serie degli archetti. Tuttavia le colonne di sinistra sono a pianta circolare e quelle di destra a pianta ottagonale.
I capitelli, che costituiscono gli elementi più ricchi di motivi decorativi, sono tutti diversi fra loro.
Tra essi uno presenta ai quattro spigoli figure notevolmente rovinate e in particolare vi si riconosce una testa antropomorfa, dagli occhi scavati e dai capelli ben lavorati.
Un altro capitello, su un fusto ottagonale, presenta otto uccelli disposti a coppie in maniera che i becchi, unendosi, costituiscano gli spigoli del capitello stesso.
La fascia superiore è costituita da dodici archetti pensili poggianti su mensole tutte diverse fra loro a forma di animali ed elementi floreali”.
Partendo da questa descrizione possiamo tentare un’analisi più approfondita del monumento provando a scoprire non solo la matrice ideologica o religiosa che ha determinato la sua forma architettonica, ma anche i rapporti proporzionali tra le singole parti e il tutto.
Per questo mi pare opportuno, perché il discorso sia chiaro, premettere alcune brevissime considerazioni di carattere generale.
La prima è che ogni forma architettonica, consapevolmente o inconsapevolmente, non è altro che la rappresentazione palpabile della ideologica del committente.
Ne discende che l’architettura non è che uno dei mezzi del “potere” per indirizzare
ideologicamente colui che fruirà dell’oggetto architettonico. Dipenderà poi dalla capacità dell’architetto fornire al committente un prodotto ove il messaggio sia più o meno evidente e persuasivo.
La fontana di Isernia sembra poter confermare questa affermazione offrendoci la possibilità di affrontare alcuni problemi della comunicazione di massa con particolare riferimento non solo all’architettura ed alla scultura, ma anche all’epigrafia e del diverso significato a secondo del contesto in cui vengono collocate.
Una forma, una epigrafe, un segno, perché abbia significato deve essere comprensibile e perché ciò avvenga è necessario che il destinatario sia a conoscenza della chiave di lettura di quei segni e che elaborandoli possa rimanere sufficientemente informato.
I pezzi che formano la Fontana Fraterna appartengono in parte a monumenti romani del I-II secolo dopo Cristo, ed in parte sono stati realizzati in epoca medioevale.
Nel I – II secolo dopo Cristo il livello di alfabetizzazione era relativamente elevato tanto che, sicuramente, le epigrafi scolpite, che pure erano tante, rappresentavano minima parte rispetto alle scritture in vernice che per pubblicità o per propaganda politica venivano realizzate sulle facciate delle case ed in particolar modo in prossimità dei luoghi pubblici.
Sia le epigrafi scolpite che quelle in vernice avevano un senso compiuto ed erano nella lingua parlata anche dal popolo.
Nel Medioevo la riduzione delle capacità di lettura, per il progressivo decadimento dell’alfabetismo, porta ad una modifica della tecnica grafica e vengono a prevalere le immagini simboliche quanto più immediatamente comprensibili.
La capacità di gestire forme simboliche nell’Alto Medioevo fu riservato esclusivamente alla Chiesa tanto che solo gli edifici religiosi assolvono il compito di “comunicare” le scelte ideologiche delle classi dominanti.
Solo dal XII secolo in poi la classe dirigente civile comincia anch’essa ad utilizzare direttamente i mezzi di comunicazione ed in particolare è Federico II, nel XIII secolo, che ne comprende a pieno l’importanza.
Questi attuò, come dice Armando Petrucci (Storia dell’arte italiana – Einaudi -Vol. 9°, pag. 13, 1980) “una consapevole opera di rinascita della scrittura monumentale romana, fatta rivivere sia nella forma, sia nella disposizione materiale e spaziale”.
Di questa impostazione federiciana abbiamo una testimonianza, solo descrittiva, nella famosa porta di Capua sul ponte sul Volturno, ove lo stesso imperatore intervenne non solo come progettista ed ideatore, ma anche come materiale compositore delle epigrafi che furono realizzate con capitale classica romana.
Fu in un certo senso una rivoluzione in quanto l’epigrafia dell’epoca era caratterizzata dalla semplice riproduzione su pietra delle lettere comunemente usate nei manoscritti con la capitale “alla gotica”.
Ma una volta terminato l’esperimento federiciano i caratteri epigrafici di tutti i monumenti tornarono al modello del libro scolastico con le lettere alla gotica.
Ciò premesso appare significativo che sulla facciata della fontana appaiano frammenti di iscrizioni romane che, dal punto di vista del messaggio, non potevano significare niente né per la cultura religiosa cristiana, né potevano minimamente interessare il popolo per il suo significato originale.
Appare perciò probabile che tali frammenti siano stati posti in chiara evidenza più per un fatto “ideologico” anziché di semplice narrazione ed è ancora più probabile che tale modo di evidenziare i reperti romani fosse conseguenza della impostazione data da Federico alla architettura del suo impero.
Ma più importante sembra il fatto che i caratteri della epigrafe rampiniana di cui si è parlato sopra, sebbene riporti un disegno chiaramente medioevale quale lo scudo con la croce uncinata, simbolo della famiglia Rampino, tuttavia è fatto con i caratteri romani e non alla gotica.
Da ciò due considerazioni che, incrociate, potrebbero confermare la datazione della fontana.
La prima è che il carattere epigrafico romano essendo solo di epoca federiciana, e ricomparendo soltanto qualche secolo più tardi nella epigrafia, dovrebbe garantire che il monumento sia duecentesco.
La seconda è che, dati i rapporti particolarmente stretti tra la famiglia Rampino e Federico II, proprio il giudice Rampino o il suo genero Benedetto d’Isernia si dovettero adoperare per consolidare in Isernia la fedeltà all’Imperatore non solo attraverso la diretta azione politica, ma anche attraverso la esecuzione di opere di architettura che esaltassero il potere federiciano.
Del resto Federico II ebbe grande interesse per Isernia come è documentato non solo dai rapporti con il Rampino, ma anche dalle donazioni e dai privilegi concessi al Monastero di Santa Maria delle Monache.
Ma oltre alle considerazioni sul carattere epigrafico altre e più interessanti possono essere fatte sulla composizione generale e sui significati simbolici dei moduli proporzionali che vi possiamo riconoscere.
Tale studio si rivela particolarmente importante per comprendere se l’opera sia frutto di una casualità oppure la conclusione formale di un processo metodologico predeterminato.

Schema grafico rinvenuto su una lastra del prospetto (Valente)

Lo schema geometrico regolarizzato

Lo schema geometrico applicato al prospetto della Fraterna (Valente)
In genere nel campo dell’indagine sull’architettura si procede più per tentativi e verifiche, specialmente se mancano i grafici originali del progetto, ma nel caso della nostra fontana mi è sembrato invece opportuno procedere attraverso la verifica di un graffito che fino ad oggi non era stato mai studiato e che è sistemato in evidenza sull’ultimo lastrone a sinistra, in facciata.
Si tratta a prima vista di un disegno privo di significato, ma che attentamente studiato induce a delle ipotesi per lo meno sorprendenti.
Anche in questo caso è opportuno fare preliminarmente alcune considerazioni.
La fontana, nel prospetto, è divisa chiaramente in tre fasce orizzontali corrispondenti al basamento, agli archetti, alla cornice.
Il basamento e gli archetti sono sullo stesso piano, mentre la cornice è aggettante.
Inoltre, procedendo ad una divisione verticale, è ancora il numero tre la matrice della ripartizione.
La base è costituita, infatti, da tre parti uguali di cui quella centrale è formata da un lastrone a rilievo con delfini e fiori acquatici proveniente da un monumento romano e quelle laterali da lastroni lisci senza motivi ornamentali.
Raddoppiando il numero tre si ottiene il sei e cioè il numero degli archetti superiori.
Va notato che mentre il numero tre ha nel Medioevo un significato anche religioso essendo riferito alla Trintità, il sei invece non ha alcun significato. Si potrebbe allora far discendere da questo il fatto che mentre i tre archi a sinistra poggiano su colonne rotonde, quelli a destra poggiano su colonne ottagonali richiamando di nuovo il tre, e quindi si tratta di due elementi diversi tra loro, ma aggregati perché omologhi.
Con un successivo raddoppio si passa poi al dodici che è il numero degli archetti pensili della cornice superiore e che nella tradizione medioevale viene associato al numero degli apostoli e di conseguenza alla idea della comunità.
Sempre il numero tre è alla base del disegno sulla lastra di pietra; infatti il grafico parte da un modulo quadrato che ripetuto per tre volte in larghezza ed in altezza determina un quadrato più grande composto da nove quadrati.
Questa particolare forma geometrica fu diffusamente usata nel XII secolo per l’impostazione planimetrica di chiese gotiche francesi fra le quali Saint Denis.
Un altro particolare rende interessante il disegno ed è costituito dal sottomodulo del quadrato base, ottenuto dividendo il modulo con diagonali in maniera da ottenere un quarto di esso.
Quest’ultimo criterio proporzionale, che ha origine platonica, fu molto usato per definire le riseghe dei pinnacoli gotici.
Quale sia il rapporto tra il disegno scolpito e la fontana si è ricavato verificando la sua applicabilità al prospetto. Del resto non avrebbe alcun senso quel grafico se non vi fosse stata una relazione con la costruzione della fontana.
È molto probabile che si tratti di un “appunto” del lapicida che sulla pietra aveva segnato i criteri di base che dovevano essere rispettati nel montaggio dei pezzi scolpiti.
Questi criteri sembra siano brillantemente rispettati nella Fontana Fraterna quando verifichiamo che il disegno di cui abbiamo parlato non è altro che lo schema di tutti i rapporti proporzionali adottati nella composizione del prospetto.
Restituendo dunque il grafico nella stessa scala della fontana, tenendo come elemento unitario di base l’interasse della colonna, otteniamo automaticamente tutti i punti essenziali perché si possa definire la larghezza delle colonne, la dimensione dei capitelli e delle basi, l’altezza ed il posizionamento della cornice e dei singoli elementi della cornice, nonché la larghezza e l’altezza della fontana.
Osservando lo schema sovrapposto al rilievo del prospetto addirittura pare che solo quello poteva essere il disegno finale della fontana.
A questo punto diventa legittimo l’interrogativo per conoscere se in Isernia in quell’epoca vi fosse un artista o, più propriamente, un architetto capace di concepire un tale metodo costruttivo, ma nessun documento storico ci viene incontro.
Per quanto riguarda le singole pietre che compongono la fontana abbiamo detto che in gran parte provengono da monumenti romani ritrovati nel territorio isernino.
Il pezzo più importante è certamente quello che costituisce la parte centrale della composizione. Si tratta di un lastrone in pietra calcarea che rappresenta due delfini ammaestrati che giocano in vasche triangolari. Nella parte centrale vi è invece un grande fiore acquatico.
Non è nota la provenienza precisa del pezzo, ma sicuramente faceva parte di qualche sepoltura. La rappresentazione dei delfini nei complessi funerari era infatti abbastanza diffusa e vicino Isernia ve ne è un esempio consimile, anche se di fattura un po’ rozza, sulla facciata della chiesa di S. Maria del Bagno a Pesche.

Sulle lastre con i delfini della Fontana Fraterna e di S. Maria del Bagno si veda S. DIEBNER, Aesernia – Venafrum, Spoleto 1979, pp. 189-190:
Fragment der Decke eines Grabmonuments Isernia, als Brùstung der Fontana Fraterna in Piazza Concezione eingemauert
Fundort unbekannt
Kalkstein H: 0,75; B: 1,80; T: 0,17
Die erhaltene Piatte stellt ungefàhr eine halbe Decke dar.
Eine Langseite weist durch die Wiederverwendung entstandene Eintiefungen auf.
Unveròffentlicht. Abgebildet bei A. MAIURI, Passeggiate campane (1950) Taf. 42
Der fìgùrliche Schmùck des Blocks ist dem des unter Is 76 beschriebenen sehr àhnlich; das Fragment stammt jedoch von einer gròBeren Decke.
Eine Blùte schmùckt das quadratische Mittelfeld; sie ist auf einen Kranz von abwechselnd zungenfòrmigen und akanthischen Blàttern gesetzt. Der Akanthus weist spitze, gleichmàBig gezackte, stark auf dekorative Wirkung abzielende Blàtter auf. In dieser Stilisierung der Form geht er weiter als z. B. zwei Fragmente aus Cales, die in die I. H. des I. Jh.s v. Chr. datiert worden sind (VERZAR, 401 Abb. 38a-b.). Das Fragment aus Aesernia wird wohl gegen die Mitte des Jahrhunderts zu datieren sein.
Fragment der Decke eines Grabmonuments
Pesche/ Isernia, in der Kirche Madonna del Bagno vor der Stadt vermauert
Fundort unbekannt
Kaikstein H: 0,90; B: 1,08
Zwei Kanten des Blocks sind halbrund abgeschlagen, die anderen sind gerade zugeschnitten. Die Oberflàche ist verrieben. Unveròffentlicht
In das von glatten Leisten gerahmte Feld ist ein Rhombus eingeschrieben; seine Ecken berùhren wohl jeweils die Mitte der Seiten. Die entstehenden Zwickel sind mit Delphinen gefùllt. In die Mitte des rhombischen Feldes ist eine groBe Blùte auf einen doppelten Kranz von Blàttern gesetzt, die abwechselnd zungenfòrmig und spitz-akanthisch gestaltet sind.
Das vorliegende Fragment àhnelt Stùcken aus Cales und wird wie jene in die I. H. des i. Jh. s v. Chr. zu datieren sein (VERZAR 401 Abb. 38b).
Un altro pezzo chiaramente romano è situato anch’esso sulla facciata della fontana ed è costituito dall’ormai famoso AE PONT che ha dato luogo alle interpretazioni più fantasiose e spesso errate quale quella di leggervi la parte finale e quella iniziale delle due parole “familiae Pontiae”.
A parte che tale interpretazione non ha alcun significato, ancora di più è inconcepibile che al termine “familiae” (che per giunta sarebbe dovuto essere posto dopo e non prima dell’aggettivo) venga dato il significato di “famiglia”.
È molto più probabile che PONT sia la parte rimasta del termine PONTIFEX che, troviamo molto sovente sulle epigrafi di monumenti pubblici romani, mentre AE potrebbe essere la parte terminale di qualsiasi parola.
M. Buonocore se ne è occupato in “Theodor Mommsen e l’epigrafia latina di Aesernia”, in Atti del Convegno per il centenario della scomparsa di T. Mommsen, Venafro 13 dicembre 2003:
Dubbi si nutrono ancora per la restituzione testuale di un documento – verosimilmente al dativo; scil.: [- - -]ae pont[- - -] (CIL, IX, 2636 = BUONOCORE, Aesernia cit. (nota 44), n. 12.) – dal momento che l’esatta integrazione, anche se dal Mommsen riferita alla titolatura imperiale di Nerva, non esclude la ragionevole possibilità di ravvisarvi l’onomastica di un eminente personaggio isernino investito di funzioni sacerdotali, meritevole di una qualche iniziativa connessa con l’edilizia urbana.
Pure romana la pietra sulla quale sono applicati i tre cannuoli di destra. Si tratta di un sarcofago decorato sul lato maggiore da due festoni separati tra loro dalla epigrafe dedicatoria
DMS
FVNDANIAE SECVRAE
PESCENNIVS SECV
RVS NEC IMMERITO.
Le prime tre lettere, D M S, fanno collocare il reperto in epoca imperiale, anche se qualche esempio lo troviamo in epoca repubblicana e sono la forma abbreviata della formula DIS MANIBVS SACRVM.
Questa esprime la volontà di consacrare la tomba alle divinità degli inferi.
Per quanto riguarda l’interpretazione del testo cosi si esprime Raffaele Garrucci (Storia d’Isernia, Napoli 1848):
Il senso della epigrafe è comune, il motivo è singolare. Che vuol dire la frase NEC IMMERITO? Niente di più che la formula comunissima “benemerenti, bene meritae”. Potrà del resto nascondervi in questa locuzione un senso più arguto tratto dal comune cognome dei due coniugi; cosicché il marito si credesse sicuro della fedeltà della moglie, quando gliel’avesse assicurato la morte. A FUNDANIA SICURA PESCENNIO SICURO, E NON A TORTO.



Franco Valente racconta la Fontana Fraterna di Isernia from Franco Valente on Vimeo.

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